La nuova frontiera della comunicazione della scienza - APRE
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Intervista a Giovanni Carrada, noto a molti come autore e volto di Superquark, la trasmissione di divulgazione scientifica di Piero Angela, non è solo un comunicatore della scienza di lungo corso, ma ha anche una vasta esperienza di temi diversi, con media diversi, e in ruoli diversi

 

Oggi la comunicazione della scienza è più facile o più difficile rispetto a quando hai cominciato a fare questo mestiere?

Molto più difficile. Una volta, se riuscivi ad avere accesso a un giornale o a una trasmissione televisiva, tutti ti stavano a sentire e per sembrare bravo, dovevi solo raccontare i fatti in modo chiaro e carino. Oggi i canali di comunicazione si sono moltiplicati a dismisura, e la competizione per l’attenzione delle persone, sempre più scarsa e sempre più fragile, è durissima. Lo sforzo di fantasia e creatività supera ormai quello per capire l’argomento che dovrai raccontare e spiegare. Anche l’autorevolezza te la devi guadagnare con le unghie e con i denti. Non basta più conoscere i fatti, devi anche convincere le persone che li conosci meglio degli altri. Con la rivoluzione digitale, la comunicazione è stato disintermediata, e chiunque può parlare, almeno teoricamente, a tutto il mondo. Il che vuol dire che chiunque scrive o dice quello che gli pare senza nessun filtro, senza nessuna sia pur minima verifica dei fatti, e senza dover rispondere di quello che esprime. Il risultato è che, soprattutto sugli argomenti più “caldi”, il cittadino che si informa sul web trova tanti messaggi che non è in grado di valutare o di gestire e di cui spesso non conosce la fonte o comunque non la sa valutare. E può facilmente cadere vittima di una serie di distorsioni cognitive sistematiche, mettendosi in testa delle opinioni completamente sbagliate. A quel punto, fargliele cambiare diventa difficilissimo.

In quali ambiti il comunicatore della scienza si trova più in difficoltà?

Probabilmente quando si parla di tecnologie che comportano qualche tipo di rischio, reale o immaginato. Penso alla questione dei vaccini, agli OGM o al genome editing in agricoltura, ai campi elettromagnetici, ai pesticidi, alla presenza di certe infrastrutture, all’uso di certe sostanze chimiche. Nel corso della nostra evoluzione, la selezione naturale ha premiato chi si preoccupava dei rischi, anche ingigantendoli, non chi li sottovalutava. Siamo molto avversi ai rischi, soprattutto a quello di perdere qualcosa. C’è una letteratura scientifica vastissima che dimostra come la nostra mente valuti particolarmente male i rischi, e in particolare valuti malissimo la probabilità dei rischi. Quasi mai esperti e opinione pubblica valutano lo stesso rischio allo stesso modo: in genere quello che preoccupa molto noi preoccupa poco l’esperto, ma anche viceversa. A questo problema di sempre dobbiamo aggiungere quello di cui parlavamo prima, perché chiunque può gettare benzina sul fuoco degli allarmismi, vuoi per ignoranza o ingenuità, vuoi per interesse. Parlare male di una nuova tecnologia aiuta sempre a difendere gli interessi di quella vecchia, o di una concorrente, ma serve anche a fare più audience (If it bleeds, it leads, dicono i giornalisti) o a ergersi a paladini dei cittadini. Questo è il cosiddetto virtue signalling, tipico dei politici. Il combinato di tutti questi fattori fa spesso sì che il messaggio scientifico corretto si trovi in una situazione di svantaggio, a volte drammatico. E trovare una comunicazione capace di rovesciare questo rapporto di forza è difficilissimo.

La politica aiuta o è d’ostacolo nel dirimere le controversie basate sulla scienza?

La politica potrebbe, anzi dovrebbe aiutare, perché il suo ruolo è proprio quello di comporre interessi divergenti e trovare una sintesi efficace. Nel caso dei pesticidi, per esempio, c’è sostanzialmente riuscita: l’Europa ha forse la regolazione migliore al mondo, e riesce a tutelare molto bene sia gli agricoltori che i consumatori. Il problema nasce quando la politica usa il tema scientifico come un’arma contro gli avversari, diventando un ulteriore fattore di confusione e di possibilità di disinformazione, soprattutto oggi, in cui sempre a causa del cambiamento nel mondo della comunicazione anche perché la comunicazione politica in questi anni si è molto polarizzata e molto semplificata. Un esempio emblematico è rappresentato dal dibattito sul cambiamento climatico, che nel caso degli Stati Uniti è estremamente polarizzato tra democratici e repubblicani. Se voti democratico, il cambiamento climatico è un’emergenza che richiede interventi straordinari come in una guerra. Se voti repubblicano, il cambiamento climatico non è un vero problema, e forse anzi è un complotto degli scienziati. Questo tipo di polarizzazione divide l’opinione pubblica in due tribù politico-culturali tenacissime. Se vai da queste persone e con dati alla mano cerchi di argomentare come stanno realmente le cose, non solo non riesci a convincerle, ma rischi di rafforzare ancora di più la loro idea sbagliata, perché con il tuo approccio minacci quella che ormai fa parte della loro identità. È difficile in questo clima fare scelte sagge, anziché scelte popolari o semplicistiche, o addirittura non farne per niente.

Come si fa a cambiare una percezione pubblica molto radicata?

In generale, bisogna liberarsi una volta per tutte dell’illusione che basti spiegare i fatti, perché le persone cambino magicamente idea. Prendiamo il caso dei vaccini. Grazie a una frode, peraltro poi ampiamente smascherata, nel 1998 nasce un’opposizione fortissima alle vaccinazioni infantili, che per più di vent’anni resiste a ogni tipo di smentita che la scienza è riuscita a mettere in campo, grazie anche a una presenza capillare sui social media, alle prese di posizione di celebrità del mondo dello spettacolo, all’opportunismo di alcuni politici. Invece in Italia, un paio di anni fa, avviene un piccolo miracolo. Alcuni giornalisti e ricercatori smettono di contrastare l’opposizione ai vaccini sul suo terreno, quello del pericolo dell’autismo, e portano all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dei bambini immunodepressi (per fortuna molto pochi) che vanno a scuola e lì si trovano in pericolo perché privati della “immunità di gregge” offerta da compagni tutti vaccinati. Quello che succede è che nel giro di qualche mese il sentimento generale – nell’opinione pubblica, nei media, nella politica – cambia, e diventa anzi possibile un giro di vite normativo per rialzare le coperture vaccinali, che erano scese a un livello allarmante.

Che cos’era successo?

Che nell’immaginario pubblico l’immagine del bambino diventato improvvisamente autistico è stata sostituita da quella del bambino, magari in cura per la leucemia, che si trova in pericolo in un luogo – la scuola – in cui ogni bambino ha il diritto di trovarsi al sicuro. Il colpo di genio, dal punto di vista della comunicazione, è stato quello di far leva su un bias cognitivo, su un sentimento, grazie ad altri fatti.

Quali sono oggi i criteri per una corretta comunicazione scientifica?

Ce ne sono di due tipi. Innanzitutto ci sono quelli di sempre, cioè rispettare la lettera e la sostanza di quello che si sa sull’argomento: analizzare bene le fonti, confrontarsi con gli esperti, cercare insomma di dare una panoramica oggettiva e completa dell’argomento. E poi ci sono criteri meno ovvi, ma altrettanto importanti. Su temi come i vaccini, il cambiamento climatico o l’impatto dell’intelligenza artificiale, una comunicazione tradizionale fatta in maniera chiara, pulita e logica, in realtà si rivela un’arma spuntata. In questo caso il criterio di qualità da tenere in considerazione è relativo all’efficacia. Secondo me, la nuova frontiera della comunicazione della scienza è una saggia applicazione dei meccanismi della retorica e della persuasione. Da quelli che ci ha insegnato Aristotele a quelli scoperti dalla psicologia sociale e cognitiva. Ogni volta che fai una comunicazione pubblica non stai parlando al tuo collega che condivide con te un enorme quantità di conoscenze pregresse, abituata a guardare i dati, addestrata a evitare le trappole del senso comune. Stai parlando con tutti gli altri, quindi con persone che hanno già qualche cosa in testa, che hanno dei pregiudizi e dei bias cognitivi. Persone come noi, ogni volta che affrontiamo un problema al di fuori del nostro ambito professionale. In altre parole, devi imparare a essere efficace, perché se non sei efficace ti condanni all’irrilevanza. La sfida – ed è una sfida tutta etica – sta naturalmente nel trovare un equilibrio tra l’uso di strumenti retorici anche raffinati da una parte, e il rispetto dello spirito e della sostanza della scienza in questione dall’altro.

Quale ruolo può giocare in futuro il comunicatore scientifico?

Auspicabilmente, dovrebbe giocare un ruolo molto più importante, perché è il tramite fondamentale fra innovazione e società. Ma non ci dovrebbero essere solo più persone che lo fanno di mestiere. Ci dovrebbe anche essere un numero sufficiente di scienziati che sappiano comunicare. In ogni settore della scienza ci dovrebbe essere almeno un ricercatore che sia anche un bravo comunicatore. Corretto e persuasivo. Dovrebbe essere cura quindi di ogni singola comunità scientifica identificare al suo interno chi ha la stoffa, la base e la voglia di assumere il ruolo del public scientist.

Come “allenarne” uno?

Facendolo lavorare per un po’ con un bravo comunicatore. Presto comincerà a prenderci gusto, e non smetterà più.

 

Questo articolo è stato pubblicato in APREmagazine n 13 del giugno/2020

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